Quando 14 anni fa mi sono trasferita a Milano avevo bisogno di un lavoro per mantenermi. Era aprile e tramite un amico dell’Università sono finita a fare telefonate da Eurisko. Alternavo turni diurni (tremendi) a turni serali (già più tollerabili). Poi il sabato tornavo a Como e la domenica facevo la commessa da Coin. Così fino a settembre, con una brevissima pausa estiva per le vacanze.
Lavorare da Eurisko non mi piaceva: non mi piaceva come ci trattavano, non mi piaceva non poter andare a fare pipì quando ne avevo bisogno, non mi piaceva non poter bere (acqua) se avevo sete, non mi piaceva la totale assenza di contatto umano al quale venivamo costretti, odiavo il dover disturbare oltremodo le persone che dovevo chiamare. Non mancavo ovviamente di farlo presente, nella vana speranza di essere quella che avrebbe fatto cambiare le cose (vabbè).
In settembre però ero ancora lì: volevo finire l’Università e poi capire cosa fare della mia vita, ma avevo comunque bisogno di un lavoro per mantenermi e quello era tutto sommato ben incastrabile con le mie necessità di studio. Quindi tenevo duro mentre mi guardavo in giro. Pochi giorni dopo venivo assunta, a tempo determinato con un part-time da 30 ore, in una società di servizi per il cinema e la TV. Ero felice: sarei stata in un ufficio da sola – quindi nei momenti morti avrei potuto studiare – e mi sarei dovuta adattare alle richieste della mia capa, incintissima all’ottavo mese e poco più. 20 giorni dopo lei era in sala travaglio, mi chiamava e mi diceva “Da oggi sei sola: gestisci tutto tu, io per un po’ sono fuori dai giochi”.
WOW, no? No.
Oddio, col senno di poi anche sì. Ho imparato così a lavorare da sola. O meglio: da sola ho imparato a lavorare. Mi sono data un metodo, mi sono auto-imposta delle scadenze (spesso all’inizio erano quelle sbagliate, ma io non potevo saperlo), ho deciso che i miei file sarebbero dovuti essere sempre tutti ordinati e le mail scritte come si deve. Ho imparato a lavorare guardando quello che facevano gli altri che però non erano in ufficio con me, ma si trovavano altrove, dipendenti dei clienti o dei fornitori della società per la quale io lavoravo e della quale, in breve tempo, sono diventata una parte integrante. Ho imparato a cavarmela da sola anche quando a 23 anni appena compiuti della vita sapevo poco e del lavoro meno di niente dalle cose più banali (la prima volta che ho ricevuto una mail con scritto FYI sono andata nel panico. Cosa voleva dire? Ho googlato: For Your Information) a quelle più strutturate.
Il mio modello, lì dentro, senza scendere troppo nei particolari, non era quel che si può definire eccelso. Adesso, che ho quasi l’età che allora la mia capa aveva quando mi assunse, posso dire che siamo due donne molto diverse che guardano e si rifanno ad altrettanti universi valoriali. Uno non è migliore dell’altro: semplicemente sono (profondamente) differenti. Lo sospettavo già 14 anni fa (anche se ero davvero molto giovane) e, per mia sicurezza, ho sempre cercato di fare (bene) tutto quel che mi veniva chiesto, ma di farlo sempre in modo etico, pulito e senza perdere di vista quel che sentivo di essere.
Quando questa pressione è diventata troppo forte, quando essere me stessa diventava difficile, ma ancora più intollerabile era essere qualcun altro, ho detto basta. La firma sul contratto a tempo indeterminato e uno stipendio che, ancora adesso, sarebbe stato considerato alto, li ho lasciati sul tavolo. Ad aspettarmi non avevo nulla: né soldi, né un altro lavoro. Ma ad attendermi c’era l’orgoglio di aver scelto di essere la persona che ero (e che ancora sono).
A QVC Next Lab, il percorso di mentoring che sto affrontando con I Live You e Arianna, ci insegnano che non possiamo pretendere di lavorare con persone esattamente identiche a quel che siamo noi. La prima ragione, banalissima, è che nessuno potrà essere come sei tu, e questo è un bene. La seconda ragione, un po’ più complessa, è che aspettarsi un tuo doppio prevede una naturale negazione delle tue aspettative. Se poi l’obiettivo è quello di crescere professionalmente, diventa doveroso affiancarsi a persone diverse da te e in grado di portare competenze differenti nell’economia del progetto a cui stai lavorando. Tutto giusto, ma io non riesco a smettere di aspettarmi gentilezza, buon senso, rispetto, empatia. A quale titolo ci viene chiesto di rinunciare a tutto questo solo perché stiamo lavorando? La risposta per me è nessuno.
Così, durante i corsi che tengo parlo ai miei studenti del lavoro che faccio, delle “questioni tecniche”, ma anche – e soprattutto – di come lo svolgo. Semplificando potrei dire che faccio più di quel che viene richiesto dove quel “più” significa soprattutto che cerco di metterci sempre un minimo di coinvolgimento personale. Parliamoci chiaro: là fuori ci sono migliaia di persone che hanno la mia stessa job description e, quindi di conseguenza, le mie stesse competenze. La differenza tra me e loro è che svolgiamo il lavoro in maniera diversa. Va da sé che io sia più affine a una tipologia di cliente e meno a un’altra e così via. Solo nell’ultima settimana due studentesse dei miei corsi mi hanno chiesto di poter lavorare con me perché sono rimaste colpite dal focus sull’aspetto umano, cosa che non hanno mai trovato nelle aziende in cui hanno lavorato.
La cosa mi riempie di orgoglio, ma nello stesso tempo anche di molta amarezza perché, in fondo, io non sto facendo niente di che: sono solo una persona che lavora ricordando a sé, e agli altri, di essere, appunto. una persona. E il bello è che è tutta – e solo – una questione di scelte.