C’è stato un periodo della mia vita in cui ero del tutto schiava di quella categoria di prodotti considerata “cult“: potevano essere libri, film, spettacoli teatrali o mostre. Ero la regina della curiosità di nicchia: ci fosse stata una laurea in materia me l’avrebbero data ad honorem.
Allora ero giovane e piena di tempo libero e mi sembrava mi sarebbe sempre stato possibile averne. Poi, con gli anni, sono stata risucchiata dal lavoro – che di ore me ne fa consumare sempre almeno il doppio di quanto vorrei – e dalla passione per il cibo (una vita passata a prenotare ristoranti non è solo il nome di una rubrica di questo blog, ma è pura verità). Inoltre, devo ammetterlo, ho perso quel guizzo curioso che mi faceva appassionare quasi irrazionalmente: l’altra mattina, però, quando a Radio Deejay hanno passato una canzone di “All that jazz”, in un attimo sono tornata la ragazza di 22 anni così tanto fan di Bob Fosse tanto da volerci scrivere la tesi di laurea triennale. Ci ho messo poco per ricordarmi di essere stata quella che a 27, al termine del percorso di studi magistrale, si era lasciata coinvolgere dall’Ispettore Coliandro di Carlo Lucarelli discutendo una tesi su un personaggio che dai libri era passato alla TV, trattato da due dei registi più indie che quel periodo ha conosciuto, i Manetti Bros.
Queste riflessioni arrivano al termine di un mese durante il quale, almeno in minima parte, ho ripreso in mano quell’appassionarmi a una cultura sì mainstream, ma con velleità un po’ più “alte”.
Ho ricominciato a leggere dei libri scelti con cura e tra questi ho amato molto “L’Educazione” di Tara Westover, un memoir in cui l’autrice racconta della sua infanzia e della sua adolescenza trascorse sulle montagne dell’Idaho, cresciuta in una famiglia di mormoni integralisti senza quindi poter frequentare la scuola, avere accesso a un’educazione tradizionale, ma nemmeno poter essere curata da un dottore in caso di bisogno e, addirittura, senza essere in possesso del proprio certificato di nascita, perché mai richiesto dalla famiglia.
Il libro è un racconto di come l’accesso a quel che noi consideriamo scontato (la scuola, il rapporto con le persone, l’amore incondizionato) possa essere l’unica chiave per una vita libera anche a costo di sacrificare la propria famiglia e il rapporto, benché controverso, con essa.
Nel video qui sotto, di Feltrinelli, Tara racconta brevemente la sua storia:
Dopo un paio di lettura cuscinetto (“L’uomo che metteva in ordine il mondo” di Fredrick Backman e “Come vorrei che fosse” di Gianni Fornasari), ho ripreso in mano un libro abbandonato anni fa, “Mr. Nice” di Howard Marks che, diversamente da quel che era accaduto al primo tentativo di lettura, mi sta piacendo moltissimo. È l’autobiografia di Marks, appunto, ex trafficante internazionale di marijuana e hashish, scomparso un paio di anni fa, che nel libro racconta la sua rocambolesca vita, fatta di legami con i servizi segreti britannici, con la mafia, ma anche con la CIA, di tentate evasioni, di amori, vizi e passioni.
Ma, rullo di tamburi, sono anche tornata a teatro dopo decisamente troppo tempo che non ne varcavo la soglia. Il pretesto, valorosissimo, è stato il nuovo spettacolo di Filippo Timi (da annoverare tra i miei personaggi cult di riferimento da più di 10 anni a questa parte), “Un cuore di vetro in inverno“.
Prodotto dal Teatro Franco Parenti (dove qui a Milano è andato in scena, appunto, fino a ieri sera) e da Fondazione Teatro della Toscana, si tratta, in tutto e per tutto, di una narrazione surreale: molti gli spunti interessanti, qualche risata di gusto, tanta ammirazione per Timi che sul palco come in TV, ma anche al cinema, è sempre impeccabile, ma anche tanta difficoltà nel seguire una trama spezzettata che, forse, nemmeno c’è.
Il piacere sta nel godersi un prodotto cult, appunto, ed è forse per questo che io, nonostante tutto, sono riuscita ad apprezzarlo. Così come ho apprezzato, anni fa ormai, due dei suoi libri “Tutt’al più muoio” scritto con Edoardo Albinati, e biografia dello stesso Timi e “Peggio che diventare famoso“, racconto dell’esperienza di Filippo durante le riprese del film di Gabriele Salvatores “Come Dio comanda”.
Se leggi qui e là le recensioni di entrambi i libri troverai pareri irrazionalmente entusiastici (eccoli qui i fan del prodotto cult a prescindere) e altri altrettanto irrazionalmente critici (eccoli qui i lettori dei soli testi lineari).
Nel mezzo non c’è nessuno perché il prodotto cult è così: o lo ami alla follia, o lo odi a morte.