Questo sarà un post strano per come ce l’ho adesso in testa, ma non so cosa diventerà quando inizierò a scriverlo: quindi una volta finito mi riservo di cancellare questa sorta di disclaimer.
Dunque: il 2014 (non tutto ma i suoi primi 3/4 sicuramente sì) è stato un anno di merda per me. Ho pensato di non scrivere ‘anno di merda’ e ho quindi passato in rassegna ‘annus horribilis’, trovandola però una definizione troppo elegante, ‘anno difficile’, troppo vago e, boh, ‘anno complicato (o complesso, come piace dire a me)’ che mi sembrava quasi un complimento. Quindi ho desistito dal cercare sinonimi.
Così è capitato, in modo naturale, che scrivessi più spesso su Facebook di quanto avessi mai fatto e che raccontassi molti più fatti miei (soprattutto qui e qui). Lo facevo anche prima, solo che, prima, vivevo su una nuvola senza neanche saperlo, ero molto meno consapevole di quanto lo sia diventata negli ultimi mesi e non conoscevo la sofferenza. Quindi è successa una cosa che mi ha prima stupito, poi un po’ innervosito e poi, finalmente mi ha fatto piacere: ho scoperto che la gente mi legge più di quanto io pensi, perché nei mesi, incontrandone tanta, altrettanta mi ha chiesto come stessi, mi ha abbracciato, rincuorato ed è stata a sentire i deliri di una poco più trentenne in preda ai dilani della vita, dell’amore, dell’abbandono e del tradimento. Ero stupita perché prima, tutta questa attenzione non l’avevo mai ricevuta. Il dilanio tira più della felicità a meno che la felicità non sia autentica perché allora, ti assicuro, tira più quella.
Poi una sera esco a cena con un amico che mi dice che la devo smettere di scrivere certe cose su Facebook, che “Raffa, sembri una sfigata depressa”. È stato difficile spiegargli che era proprio così che mi sentivo e che non vedevo il motivo di dare di me un’idea (o un’immagine) diversa da quella che mi sentivo cucita addosso. Ero triste, mi sentivo sfigata (un po’, non tanto) e, credimi, ho scritto molto meno di quel che avrei voluto. Allora, per spronarmi a non sembrare una ‘sfigata depressa’, mi dice che un nostro amico comune, che non vedevo da secoli, gli aveva chiesto che cosa avessi e che mi sarei dovuta ripigliare. Un modo come un altro per dirmi che la mia ‘reputazione’ di donna positiva, sempre sorridente e ironica, si stava… macchiando. Complicato, anzi complesso, far capire che la vita lì è la stessa della vita qui, che ironica lo sarei sempre stata, sul positiva forse mi ci sarebbe voluto un po’ di più, ma che in quel momento ero una persona diversa dal passato. E che la mia reputazione, in realtà, sarebbe cambiata solo se non fossi stata sincera. (Qui sotto ti metto un paio di post su tutti).
Nonostante mi fossi molto innervosita, o forse proprio per questo motivo, ho iniziato però a pensare seriamente se quello che stavo esternando potesse considerarsi ‘opportuno’ rispetto a tante cose, il lavoro, gli amici, i conoscenti, la famiglia, le relazioni in generale. Pur pensandoci a fondo, rileggendomi tanto (cosa che prima non avevo mai fatto) non ho trovato nient’altro che malinconia, tanto profonda quanto, però, sincera e innocua.
Ma è vero però che la portata di quel che scriviamo qui (e per qui intendo quel luogo che raggiungi grazie a uno schermo) è enormemente più vasta di quella che potrebbe avere una chiacchiera al bar. Il web è fuggevole o così solo pare perché, in realtà, ha la memoria lunga, come neanche te lo immagini. Io stessa, nel mio piccolo, sperimento questa cosa: il momento buio è passato da un bel po’, un po’ di acqua è passata sotto il ponte e io non sono sicuramente più quella di prima, ma non mi sento neanche lontanamente una depressa sfigata, eppure ci sono persone che, vuoi perché le incontro un paio di volte all’anno, se non di meno, vuoi perché vengono più colpite dalla malinconia che dalla felicità, ancora ora mi chiedono notizie come se il ‘momento brutto’ lo stessi vivendo proprio adesso o comunque ancora. Di qui appunto il fatto che il web abbia la memoria lunga o, meglio, che la gente (che sta sul web e anche no) ce l’abbia.
Alla Social Media Week, che ho seguito dallo scorso 23 febbraio fino al 27, un panel è stato dedicato alla Digital Reputation, ovvero quella che ti costruisci impilando i mattoncini della tua esistenza ‘qua sopra’ ed è il motivo per cui ho scritto questo post.
Qui sotto trovi il video del panel dove con esempi pratici, bad e best practice, Matteo G.P. Flora, Filippo Giotto, Alessio Jacona e Piero Tagliapietra, hanno fatto capire che è vero che non esiste un confine tra quello che sei per strada e quello che sei, per esempio, su Facebook. Ma che la portata di quello che fai/dici per strada è enormemente limitata rispetto a quella che potrebbe avere la stessa cosa fatta o detta sul web. Che a volte stare zitti è la scelta migliore, che stare attenti non è un’opzione e che forse prima di ripigliarti sul web ti dovresti ripigliare in generale.
Se vuoi ridere un po’, vai al minuto 26 e scopri come e quanto puoi farti male coi social media.
Il disclaimer non l’ho cancellato perché questo doveva essere un post (solo) sulla Social Media Week, ma, alla fine, è diventato una psico-cosa delle mie.