Nel 2001, in settembre, dovevo compiere 20 anni. Studiavo e vivevo ancora con i miei genitori a Como. Lavoricchiavo, un po’ come commessa da Coin, un po’ in alcune segreterie per sostituire maternità e coprire ferie (degli altri). Poi mi sono iscritta alle liste per fare la rilevatrice del censimento della popolazione del 2001. Il lavoro era ben pagato, per una che non aveva ancora affitti o mutui o spese di casa da pagare. Sono andata a un corso dove ci hanno spiegato cosa avremmo dovuto fare, come ci saremmo dovuti comportare e che % minima di moduli compilati avremmo dovuto riportare indietro per essere pagati.
Sembrava tutto facile. Ci hanno dato una valigetta (sembravo un agente immobiliare con troppi anni di meno) che conteneva penne, moduli e registro, tipo quello delle assenze e dei voti di scuola. Ci hanno assegnato una zona e una scadenza entro la quale riconsegnare in Comune i moduli compilati. Una pacca sulla spalla e via.
Avevo 20 anni e avevo meno paure di quelle che ho oggi. Così il fatto che mi fosse capitata una zona altamente popolare abitata un po’ dalla qualunque, ma soprattutto da quelle persone che se incontri per strada tendi a evitare, non mi ha impensierita. Il pomeriggio verso le 15 prendevo la mia valigetta e a piedi raggiungevo le vie che mi erano state assegnate, mi attaccavo ai citofoni e ai campanelli e mettevo piede nelle vite di un sacco di persone. Sono andata in quella zona tutti i giorni per più di due mesi, perché è abbastanza evidente che non trovi sempre tutti in casa e che buona parte dei censiti desiderava compilare il modulo per conto suo, “quando torna mio marito” o perché “è mia moglie che di solito si occupa di queste cose”. La gente mi salutava dai balconi e dalla finestre “Ah, ma lei è la signorina del censimento, non ha ancora finito? Povera stella!”.
Mi sono seduta a decine di tavoli, ho bevuto troppi caffè e ho anche mangiato con una famiglia turca, per terra, senza scarpe (non c’erano tavoli, divani e sedie) e me la sono fatta sotto quando mi sono ritrovata in una casa abitata da sei uomini di diversa provenienza geografica che sul tavolo avevano di tutto e niente di quel che vedevo lì sopra stimolava un senso di fiducia e di tranquillità. Ho aiutato vecchine sole a compilare un modulo che per loro era tanto difficile quanto inutile, e ho assistito a scene di vita famigliare delle quali avrei fatto volentieri a meno. Ho atteso ore che i proprietari dell’unica villa del quartiere mi ricevessero, ho visto uomini scansare con un gesto le mogli e mogli trattare i mariti come pezze da piede. Mi sono sentita insultare, trattare come una ladra e sono stata lasciata ad aspettare su zerbini e marciapiedi molto spesso.
Ho però capito cosa vuol dire ‘umanità variegata‘, che una vita è sempre diversa dall’altra, che di rispetto ce n’è come anche no, e che se ci fosse sempre, dio che bel mondo che sarebbe.
Da allora sono passati 12 anni, due anni fa hanno rifatto il censimento, qui sono venute due ragazze che non ci hanno neanche guardato negli occhi, hanno lasciato il modulo e poi noi lo abbiamo portato alla posta e allora mi sono ricordata che invece io, a furia di averci a che fare davvero con quelle persone, i loro nomi li avevo imparati a memoria e che per mesi dopo quell’esperienza se mi capitava di incontrarli in giro li salutavo, proprio come se fossero degli amici.